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STARE ATTENTO AD INFORMAZIONI VERE O FALSE
Intervista a Georges Malbrunot giornalista
de Le Figaro

BOLOGNA - “In Iraq non torno fino a quando non si potrà lavorare in pace”.

Ad affermarlo è Georges Malbrunot corrispondente de Le Figaro, specializzato in Medio Oriente e Iraq, che il 20 agosto 2004, mentre viaggiava da Baghdad a Najaf per documentare la rivolta sciita di Moqtada al Sadr venne sequestrato dall'Esercito islamico, insieme al collega Christian Chesnot. I due giornalisti francesi furono liberati il 21 dicembre 2004, dopo 124 giorni di prigionia.

Incontriamo Malbrunot a Bologna, al seminario per giovani giornalisti e operatori della comunicazione, dal tema “Fare News fra guerra e pace”, promosso e organizzato dalla Provincia di Bologna e dal Centro San Domenico, in collaborazione con Fondazione Scuola di Pace Monte Sole, con il patrocinio della Scuola Superiore di Giornalismo "Ilaria Alpi" dell'Università di Bologna, del Corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell'Università di Bologna e dell'Ordine dei Giornalisti dell'Emilia-Romagna.

Abbigliamento sportivo–elegante, aria di giornalista intrigante, gentile e disponibile nel rilasciare interviste e anche nel ricordare la sua esperienza, capisce l’italiano ma lo parla poco. “Il mio italiano – afferma - è molto antico, preferisco rispondere alle domande in francese”.

Quando gli viene chiesto se si sente portatore di pace nel suo lavoro, risponde: “Io sono giornalista e devo scrivere i fatti, il ruolo del giornalista è quello di raccontare non può essere un educatore. Comunque non credo si possa parlare di funzione educativa dei media”.

Cosa ricorda del periodo del sequestro?

“E’ come un’ombra che mi segue senza darmi troppo fastidio. Ho avuto pochi cambiamenti, sono uscito indenne, sano e salvo e con non troppe conseguenze sul piano psicologico, quindi mi ritengo fortunato. Ricordo il giorno in cui ero in aereo e stavo lasciando l’Iraq, era il 21 dicembre del 2004, dopo che avevo trascorso ben 11 anni di carriera professionale in Medioriente, mi chiedevo quali ricordi mi sarebbero rimasti dentro dopo questi anni sicuramente ricchi e anche belli, con un finale po’ amaro, pieno di insidie. Mi chiedevo se avrei ritrovato la voglia di tornare a lavorare in questo Paese, di tornare a lavorare come giornalista o chissà se mi sarei dato al calcio o ad altro. Dopo alcune settimane di riposo ho fatto un bilancio e mi sono reso conto che stavo bene e che tutto era andato bene, certo c’è voluto del tempo per recuperare e scrivere anche un libro insieme al mio collega. Dopo ho anche ritrovato la voglia di ritornare a lavorare come giornalista in Medioriente, infatti ci vado ogni mese, quindi a livello professionale non mi ha lasciato segni se non a livello personale. Conservo l’esperienza come una parentesi, certo difficile, un incidente professionale. Mi dico: ho visto tanta gente soffrire, essere imprigionata, torturata, alla fine io non ho sofferto più di tanto, non tanto quanto un palestinese o un iracheno, alla fine ho preso le distanze, ho relativizzato la mia esperienza che per quanto dolorosa rispetto a quel mondo non è stato niente. La vita è andata avanti e continua”.

Cosa pensa dell’uccisone di Enzo Baldoni, rapito in contemporanea a Lei, ma ucciso dopo 7 giorni?

“La morte di Baldoni resta un mistero, un qualcosa che io stesso non riesco a spiegare. Il fatto che è stato rapito il 19 agosto, ma già ucciso solo dopo 7 giorni di prigionia è qualcosa che mi lascia esterrefatti. Di solito anche i gruppi più radicali di Al Qaida non uccidono subito i prigionieri, le prime settimane di solito sono quelle delle rivendicazioni durante i quali si avviano i negoziati. Nel caso di Baldoni questo non si è verificato. Noi abbiamo saputo dell’uccisone il 18 settembre e quando ho chiesto spiegazioni e quindi come mai era stato ucciso, mi è stato risposto che Baldoni non era un giornalista, ma una spia. Forse bisogna mettersi nella loro ottica, Baldoni non aveva uno status ben preciso, appariva come cooperante di una Ong, come un pubblicitario, non aveva uno status di giornalista chiaro. I rapitori ragionano in bianco e nero. Quando abbiamo scritto il libro e abbiamo parlato con un giornalista iracheno vicino ai rapitori di Baldoni, questi hanno aggiunto un altro elemento alla questione. Ci è stato detto che nel caso mio e del mio collega Christian Chesnot i rapitori sentivano che il governo francese aveva preso sul serio la questione, mentre per Baldoni il governo italiano sembra non avesse preso sul serio il rapimento. I primi contatti tra i miei rapitori e il governo francese sono stati tramite internet, che ormai è sempre più a portata dei terroristi che se ne servono per fare propaganda.

Sicuramente qualcosa è successo sulla vicenda Baldoni, resta un mistero. Sembra che l’Italia rappresenti in Iraq il miglior alleato delle forze occupanti e questo è un elemento che avrà giocato a sfavore, o forse avrà tentato la fuga. Non si sa”.

Cosa pensa invece della vittoria di Hamas?

“Innanzitutto il voto per Hamas è un voto di rifiuto per Al Fatah, partito di Abu Mazen, e per tutto quello che rappresentava, aveva fatto sì che dal 1994 fosse costituita l’autorità palestinese. Non è che all’improvviso chi ha votato Al Fatah si è ritrovato islamista dal giorno alla notte, ma è un movimento che si è evoluto man mano e quindi rappresenta un voto contro la corruzione che rappresentava Al Fatah, partito molto corrotto, contro il mal governo, contro il processo di pace, che comunque già non esisteva più quindi era un’ipocrisia, contro un’Israele che ha sempre cercato di soffocare il nazionalismo palestinese che adesso è rinato sotto forma dell’islamismo, quindi una nuova forma di nazionalismo che ha preso la foggia dell’islamismo. Sicuramente Hamas vorrà cercare di fare del suo meglio per essere giudicato bene, per distinguersi da Al Fatah e quindi cercherà di gestire al meglio il governo, innanzitutto per tutelare l’elettorato che l’ha portato al potere e quindi gestire la cosa pubblica e governare senza corruzione, cercando di gestire al meglio le città. Uno dei punti forti di Hamas non è quello del dialogo con Israele, ma neanche Israele vuole avere a che fare con la Palestina e con Hamas, contrario al processo di pace, ma tanto questo non esisteva già prima, quindi Hamas deve dimostrare di saper fare qualcosa. Penso e spero che la Comunità internazionale non lo boicotterà dal punto di vista dei fondi finanziari, sarebbe un errore tagliare i fondi ad Hamas, perché li troverebbe comunque altrove, potrebbero arrivare da altri ambiti del mondo. Bisogna vedere cosa succederà, la situazione è cambiata ed un nuovo elemento è entrato in scena. Ci sono due poli radicali da un lato gli islamisti in Palestina al potere e dall’altro il regime israeliano che è radicale, e adesso bisognerà vedere cosa viene fuori da queste due forze contrapposte radicali. Forse si troverà una nuova formula per cominciare il dialogo, Hamas comunque cercherà di non sporcarsi le mani in cose come dialogo e pace, ma questo cercherà di farlo fare ad Al Fatah e bisognerà vedere se quest’ultimo starà al gioco. Sarà come una coabitazione, un po’ come la destra e la sinistra dei Paesi occidentali”.

Durante questi anni di attività giornalistica si è mai censurato?

“Non mi sono mai autocensurato, l’unica scelta che ho sempre fatto è di stare attento ad informazioni vere o false.”

Dopo un attimo di pausa aggiunge di aver dimenticato di parlare di una censura imposta giorni fa.

“Stavo scrivendo sul meccanismo della corruzione in Palestina. La corruzione è come il tango bisogna essere in due per ballare. Ho incontrato un imprenditore francese che mi ha detto come aveva fatto per corrompere una società palestinese, avevo nomi e cognomi del corruttore e dei corrotti della vicenda e anche di un Ministro coinvolto, a quanto ammontava la tangente. Quando ho presentato il pezzo a Le Figaro, il servizio giuridico mi hanno bloccato dicendo che non conveniva prendere una denuncia per diffamazione che ci avrebbe portato in Tribunale costandoci almeno 100 mila euro per ogni informazione scritta, che bisogna anche dimostrare. Io avevo i documenti e potevo dimostrare tutto, però per una serie di motivi non li ho utilizzati e quindi c’è stata una sorta di semicensura. In quel caso tolto i nomi ma ho comunque scritto il fenomeno della corruzione in Palestina”.

Clara Salpietro