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2004

Bordline - Riflessioni
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Sommario


LE RIFLESSIONI DI MARCO






 

SBAGLIANDO S'IMPARA

Dall’11 settembre del 2001 in poi gli americani sono in guerra e sanno di esserlo. Noi italiani l’abbiamo imparato un anno fa dopo Nassirya, gli spagnoli pochi mesi fa, i francesi ad agosto e le associazioni di volontariato solo da qualche settimana. Chi pensava di restare fuori del conflitto in base alle proprie buone intenzioni o competenze si è dovuto ricredere e il capitolo è tuttora aperto.

E’ interessante a questo punto tornare indietro ed analizzare tutto quello che è andato storto. In conto vanno messi una serie di errori grossolani, ma riconducibili a due: informazioni superficiali sull’obiettivo e cattiva gestione del dopoguerra. Nel primo caso si sono prese per buone fonti interessate o male informate; nel secondo si è iniziata una guerra senza valutarne le conseguenze reali e – stranamente - senza avere un piano a lungo termine. Questioni non da poco: il capo della CIA, Tenet, è stato sostituito, mentre Challabi – l’uomo politico iracheno in esilio appoggiato per mesi – è stato brutalmente ‘licenziato’ qualche mese fa. Non è comunque la prima volta che gli Americani fanno insieme i due errori di informarsi male e di puntare su politici di secondo piano. In più, la stampa americana non fa sempre il proprio dovere nel descrivere una guerra (
http://www.nytimes.com/2004/05/26/international/middleeast/26FTE_NOTE.html?8dpc).

Per la seconda questione – la gestione del dopoguerra - consiglio l’analisi di Peter W. Galbraith, analista politico e funzionario governativo nei Balcani: How to get Out of Iraq, (reperibile nel web nella The New York Review of Books vol. 51, n. 8:
http://www.nybooks.com/articles/17103  e http://www.nybooks.com/authors/10454). L’elenco degli errori seguiti all’ingresso dei Marines a Bagdad è sorprendente. In sostanza, non si è capito che la guerra vera iniziava proprio una volta entrati in città, né si era previsto lo sgretolamento dello Stato (e non del solo regime iracheno), col risultato di creare il Caos senza saperlo amministrare. Liberare un paese è un conto – e l’Iraq è stato realmente liberato da Saddam – ma governare e ricostruire uno Stato è ben altro. Inesperienza a parte, nei due mesi successivi all’aprile 2003 furono saccheggiati dagli iracheni ospedali e università, più il Museo archeologico e la Biblioteca nazionale. Stranamente, non erano stati presidiati neanche tutti quegli uffici e ministeri pieni di documenti utili a ricostruire il regime di Saddam e incriminarne i complici. Sul piano politico, la ricostruzione di un paese condizionato da scarsa coesione nazionale, dall’influsso dei leader religiosi e dalla mancanza di tradizioni democratiche era comunque difficile. Ma si è fatto anche l’errore enorme di proporre una Costituzione elaborata unicamente da giuristi americani, strana pratica per un paese democratico: nel 1948 agli italiani non era stata fatta certo un’offerta simile. Niente di che stupirsi se poi quella costituzione non è stata accettata da tutte le parti irachene. Le parti, si badi, non il ‘popolo iracheno’, che di fatto non esiste. L’Iraq è un paese artificiale messo insieme negli anni Trenta dagli inglesi, quindi ricostruire l’Iraq non è la stessa cosa che ricostruire il Giappone o il Vietnam.

Sul piano militare si è pagata la carenza di truppe. 150.000 soldati andavano bene per vincere la guerra, ma per controllare un paese immenso e con frontiere estese come l’Iraq ne serve il triplo. L’esercito iracheno contava 500.000 soldati ed è stato sciolto invece che ridotto, creando solo disoccupati, mentre il nuovo esercito iracheno è ancora agli inizi, anche se promettenti. A questo si aggiunga le modalità di combattimento della resistenza irachena: rapimenti, attacchi ai convogli, autobombe. Nei centri abitati la possibilità di fare vittime anche fra i civili è alta e – data la natura semidesertica del terreno – è la città l’unico luogo dove si può combattere senza finire annientati. Le milizie sciite di Moussa Sadr hanno resistito a Najaf e quelle sunnite a Falluja, pur con forti perdite. D’altro canto i soldati combattono l’insurrezione come la guerra, cioè con la mano pesante e senza badare ai civili. E quando un esercito ha un volume di fuoco di cento a uno, la distruzione è assicurata ma scade il rapporto di fiducia con la popolazione civile. A meno di non intervenire affatto e dare al governo iracheno una reale sovranità, come suggerisce Noam Chomsky in un recente articolo (
http://www.guardian.co.uk/usa/story/0,12271,1214968,00.html), tradotto anche in italiano (http://www.zmag.org/Italy/chomsky-exitstrategy.htm). Ma inutile farsi illusioni: come in Afghanistan, il Governo eletto non avrà mai la completa sovranità sull’intero territorio nazionale, mentre la resistenza irachena non ha un progetto di lungo termine. In un certo senso, la spartizione dell’Iraq in tre zone (Curda, Sunnita, Sciita) è un finale prevedibile, forse non voluto dagli occidentali – come insinuano a sinistra – ma piuttosto condizionato dal peccato originale di una nazione creata a tavolino sulle spoglie dell’Impero Ottomano.

Ma c’è una componente irachena e/o straniera che non vuole la ricostruzione dell’Iraq. Distruggere i terminali petroliferi, uccidere gli intellettuali e i leader religiosi moderati, rapire gli stranieri ha un obiettivo preciso. Si può discutere se la resistenza irachena sia realmente alleata con i gruppi esterni infiltrati e se l’alleanza delle forze sunnite e sciite avrà un reale futuro, ma è un punto fermo che il paese che stanno impedendo di ricostruire è il paese loro, quello dove dovranno vivere e convivere in futuro. E se oggi il governatore Bremer afferma che i soldati americani non resteranno in Iraq fino alla pacificazione del paese perché tanto sarà sempre in guerra, a maggior ragione dovranno essere gli iracheni a trovare un modus vivendi. E’ un discorso cinico, ma realistico.

All’interno di questo discorso rientra la vicenda delle due Simone. Leggendo oggi il sito
www.antimperialista.org sembra quasi che le attività operative dei volontari dei gruppi pacifisti fossero in contrasto con quelle ufficiali. Ora, è vero che i rapporti tra militari e ONG non sono sempre buoni (ricordo un ottimo articolo sulla Rivista Militare SME che riguardava i Balcani), ma i volontari, anche i più neutrali, sono comunque parte di una cultura e di un modello politico ed economico, in questo caso occidentale. Sono neutrali e sinceri quanto potevano esserlo i missionari ai tempi delle colonie: sicuramente in buonafede e ostili allo sfruttamento degli africani, ma più inseriti nell’ingranaggio di quanto non ne avessero coscienza loro stessi. E questo in Iraq dà fastidio a qualcuno. Ed è anche chiaro che chi resta va protetto. Ma a questo punto i tremila soldati italiani in Iraq dovrebbero diventare almeno cinquemila e noi non li abbiamo, quindi i volontari sono costretti a far le valige. Esattamente quello che voleva chi ha organizzato molto professionalmente il rapimento delle due Simone e ne sta ora gestendo la detenzione.

Marco Pasquali
25 settembre 2004