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oltre l'arte
n. 1 - gennaio - aprile 2001
Beni Culturali - Libri Saggistica
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Christopher Duggan

CREARE LA NAZIONE.
Vita di Francesco Crispi
Roma-Bari, Laterza, 2001.
pp.1018.
Collana Storia e Società.
ISBN: 88-420-6219-7 . Rilegato.
Lire 80000 (euro: 41,32)































































































RIFLESSIONI SULLA "CRISPOLOGIA"

Nel 1901 moriva Francesco Crispi, un uomo politico che fa parte integrante della storia italiana, ma sul quale non è stato ancora dato un giudizio definitivo. Ci prova ora lo storico inglese Duggan. Lunga è la biografia politica di Crispi: protagonista dei moti risorgimentali in Sicilia, avvocato nella Napoli borbonica, cospiratore mazziniano, organizzatore della spedizione dei Mille. Poi, deputato dell'Italia unita, diventa monarchico. E' primo ministro riformista nel 1887 e poi autoritario dal 1893 al 1896. La campagna d'Africa si chiude con disfatta di Adua (1896), che è anche la fine della sua vita politica.

Personalmente, nella carriera di Crispi distinguerei la politica interna dalla politica estera. In politica interna, la sua impostazione è dichiaratamente statuale: ex mazziniano, ex democratico, ex uomo di sinistra, Crispi si orienta presto verso il liberalismo autoritario e dirigista, il che lo porta non solo a superare la cronica debolezza delle coalizioni politiche forzando una democrazia già debole (Sergio Romano paragona Crispi a Craxi), ma ad affrontare col pugno di ferro sia i Fasci siciliani che tutti i problemi provocati dai conflitti tipici di un paese squilibrato, al bivio fra agricoltura e lenta industrializzazione, ancora poco integrato nelle sue componenti sociali. Se da un lato viene messo ordine negli enti di assistenza e previdenza - settore tradizionalmente gestito dai cattolici - e viene creato un embrione di Welfare State, nelle questioni di ordine pubblico Crispi forza la mano fino a spingere lo Stato e il Re verso una guerra civile strisciante, duramente repressa con l'esercito. Solo più tardi, nell'epoca di Giolitti, questa conflittualità sarà almeno attenuata nell'unico modo possibile: integrando le forze cattoliche e socialiste nella vita politica italiana.

Su Crispi il giudizio della cultura cattolica resta infatti negativo: lo storico Giorgio Rumi ritiene l'intervento sulle opere pie "se non il controllo, certo una gestione del soccorso alle masse popolari. Una specie di ministero degli Affari sociali in nuce allo scopo di sottrarre alla Chiesa questo intervento sociale e caritativo. Oltre che nell'educazione". Ma invece è bene ribadire che il passaggio dell'assistenza sociale e dell'educazione dalla Chiesa allo Stato è parte integrante della modernità. Sergio Romano vede invece in Crispi lo statista: "non ha mai rinnegato la sua concezione di affermazione dell'autorità dello Stato e del compimento della missione italiana nel mondo. Diventa monarchico per la stessa ragione di Garibaldi. Capisce che è il solo modo per garantire l'unità dello Stato in quelle circostanze e per non isolarsi".

In politica estera Crispi imposta in modo nuovo il ruolo geopolitico dell'Italia: siciliano per nascita e cultura, sposta nel Mediterraneo un centro di gravitazione finora orientato - da Cavour in poi - verso l'Europa francofona e anglofila. Ma è proprio questa politica mediterranea a portare all'attrito con Francia e Regno Unito, già stabilmente presenti su entrambe le sponde del Mediterraneo. Per la giovane nazione italiana questo causa a mio parere due conseguenze gravi: l'avvicinamento verso la Germania di Bismarck e l'avventura coloniale in Abissinia. La simpatia per Bismarck era naturale, quasi un'affinità elettiva fra personalità autoritarie alle prese con problemi simili: una nazione unificata da poco, una forte monarchia con cui fare i conti, il crescente peso del socialismo fra le masse, il difficile rapporto con i cattolici e la debolezza delle coalizioni parlamentari. Ma in più, era patrimonio culturale di entrambi una visione aggressiva della politica estera in un concerto europeo già consolidato. L'avvicinamento verso la Triplice Alleanza non fu quindi casuale, ma organico.

Ma con Crispi si dipana quel paradigma classico che è la proiezione verso l'esterno - nella forma della guerra imperialista - di tutti i conflitti interni irrisolti di un giovane stato nazionale. Proprio a Crispi va imputata la volontà espansionista, complici i Savoia, i quali - afferma Angelo Del Boca, il nostro migliore storico del colonialismo - "sono ambiziosissimi, in modo particolare Umberto che guarda all'Africa come a un coronamento dell'unità. Non i generali come Baratieri, garibaldino come Crispi, sul quale poi verrà fatta cadere tutta la responsabilità". In realtà il colonialismo italiano parte tardi e male. Tardi perché ormai l'Africa era già stata cinicamente spartita fra le potenze europee; male perché impostato come proiezione di potenza piuttosto che sulla base di reali esigenze economiche. L'espansione coloniale europea aveva dato accesso a materie prime e a manodopera a basso costo; aveva ampliato su scala planetaria i mercati, ponendosi come primo esempio di globalizzazione. Crispi parte invece da un pregiudizio: ritiene che senza un impero non si entri nel club. Da qui il carattere assolutamente antieconomico del colonialismo italiano, compensato da una forte valenza politica e propagandistica in cui si pesca a piene mani. Duggan sostiene che l'impresa africana fu più subita che voluta da Crispi, che avrebbe preferito concentrarsi sugli equilibri europei. Però ne intuì la forza come leva di consenso popolare al fine di far dimenticare i problemi interni. E' un classico, ma anche un esempio di strategia sbagliata: ossessionata dall'Africa, l'Italia lasciò soli i milioni di italiani che proprio in quegli anni stavano emigrando verso le Americhe, dove opportuno sarebbe stato consolidare i nostri interessi.

Di per sé la spedizione africana non era organizzata male. Non concordo con Duggan, che accusa l'Italia di arretratezza militare. Pur difettando della lunga esperienza britannica in "piccole guerre" (uso il termine coniato dallo storico militare inglese Liddel Hart), il corpo di spedizione italiano era armato ed equipaggiato molto meglio di quanto non lo sarebbe stato in alcune delle spedizioni successive; in più, molti ufficiali e sottoufficiali si erano fatti le ossa con la repressione del brigantaggio, senz'altro più vicina alle guerre africane che a quelle europee. Le carenze sono invece proprio politiche: Crispi, ambizioso ma ormai vecchio (78 anni) non riesce sempre a controllare la sua azione, si contraddice. Dopo la prima guerra italo-abissina bisogna scegliere se continuare in profondità la penetrazione militare, almeno occupando tutto il Tigrè; o retrocedere sul vecchio confine, come suggerisce il generale Baratieri. Crispi un giorno è per l'offensiva, l'altro per la difensiva, ma il Re preme per risultati tangibili. Quindi si avanza senza preparazione, col risultato della disfatta di Adua (1896). In realtà ben altri eserciti coloniali avevano preso dure lezioni dagli altri: gli inglesi in Afghanistan e in Zululand, tanto per fare un esempio. Ma in Italia ci si era giocati tutto su una carta sola. Adua diviene quindi un fantasma che peserà per anni nella memoria collettiva. Intanto, fino al 1911 - quando Giolitti punta alla Libia - nessuno proporrà più spedizioni militari, il che di per sé non è negativo. Ma quando Mussolini tornerà in Etiopia, dirà di ricordare da quand'era bambino quella sconfitta. E infatti nel film Scipione l'Africano (1937) il centurione romano alla fine griderà: "Canne è stata vendicata!!". E in politica non c'è niente di più inquietante che esaltare l'aspetto emotivo a spese delle facoltà razionali.

Ma questo ci spingerebbe anche a parlare delle successive operazioni in area esterna delle forze armate italiane. A guardarle tutte insieme, anche se ben organizzate, si direbbero caratterizzate da un presenzialismo esasperato (Carlo Jean) e da una gestione politica non sempre coerente con i reali interessi della nazione. Penso agli alpini in Mozambico o ai parà mandati l'altr'anno a Timor Est, con costi enormi e un tornaconto politico prossimo allo zero. E anche stavolta si parlava della "missione italiana nel mondo".

Marco Pasquali