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2005
Beni Culturali - Libri Saggistica
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ARMI D’ITALIA
Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo

Riccardo Bagnato; Benedetta Verrini

Roma, Fazi editore, 2005
23 cm, 292 p.

Euro 17,50
 


Quando il piombo si trasforma in Oro

Per capire meglio i reali motivi che hanno portato alle recenti dimissioni del CSM gen. Fraticelli consiglio di leggersi anche questo libro uscito pochi mesi fa, in cui gli autori non solo rifanno la storia dell’industria bellica italiana e del commercio verso l’estero, ma analizzano in dettaglio anche la struttura e il modus operandi della lobby armiera. Sia chiaro che su alcuni principi non si discute: “Il potenziale difensivo e di sicurezza di una nazione si misura sulla base della capacità operativa delle sue Forze Armate, ma dipende, in misura notevole, anche dalla credibilità e dal grado di autonomia e autosufficienza della corrispondente industria”. Lo dice il ministro Antonio Martino nella premessa al Libro Bianco della Difesa del 2003, e lo cito perché il concetto di interdipendenza tra politica, esercito ed armamenti è organico allo Stato moderno, al di là del moralismo pacifista. Al massimo si devono stabilire limiti precisi (che tipo di armi vendere e a chi) o verificare che gli interessi dell’industria siano realmente gli stessi delle Forze Armate, del che si può dubitare. La polemica innescata dal gen. Fraticelli infatti riguardava anche i condizionamenti della lobby industriale sulle reali esigenze dell’Esercito e l’esistenza di cordate all’interno dello Stato Maggiore. Sono in realtà vecchie storie, ma stavolta il gioco si è fatto duro. 

Ma torniamo al libro. Nella prima parte viene spiegata alla gente comune la distinzione tra le armi (leggere, pesanti, comuni, militari), classificazione non sempre chiara. Poi si passa alla storia del quadro normativo. E qui una sorpresa: l’Italia del dopoguerra per quasi cinquant’anni non si è mai data una legislazione sull’esportazione delle armi, per quanto restrittiva è quella sull’introduzione. Germania e Francia p.es. avevano regolato il settore già negli anni ’30. Armi e tecnologia militare sono infatti prodotti industriali, ma non omologabili alle normali categorie merceologiche. Invece per anni abbiamo esportato tutto a tutti, soprattutto nel Terzo Mondo, col risultato che le organizzazioni pacifiste e/o cristiane hanno combattuto per anni il commercio delle armi senza neanche conoscerne bene i dati. La deregolazione termina con la legge 185 del 1990, che introduce una serie di garanzie e limitazioni precise. Si stabiliscono situazioni in cui la vendita di armamenti è vietata (p.es. a paesi in guerra o sotto embargo o poveri e indebitati e/o che violano i diritti umani), si esigono garanzie sul cliente finale (per evitare le note triangolazioni), si stabilisce che commercio e transito di armi sono vietati se in contrasto con la Costituzione, con i fondamentali interessi di sicurezza dello Stato e di lotta al terrorismo. Si stabilisce presso il Ministero della Difesa un registro nazionale delle imprese autorizzate a produrre ed esportare armi e tecnologia militare, le quali sono soggette a precisi controlli e devono fornire documentazioni precise e sottostare alle commissioni. Per l’epoca era una legge molto avanzata, tanto avanzata che nel 2003 l’AIAD (Associazione Industrie per l’Aerospazio e la Difesa, 163 imprese con 50.000 addetti) è riuscita a modificarla in senso meno restrittivo attraverso lobby e gruppi parlamentari. E’ noto che l’industria militare contribuisce all’1% del PIL; meno noto è che il primo tentativo di ammorbidire la legge si deve nel 2000 all’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema, anche se l’iter parlamentare è stato poi perfezionato dal governo di centrodestra. C’era infatti la preoccupazione per il calo del fatturato, dovuto in realtà anche all’assetto antiquato delle imprese italiane, ma c’era anche la necessità di adeguare la legge italiana a quella europea e creare una volta per tutte un consorzio europeo delle industrie militari (accordo di Farnborough, 2000). Ma proprio quest’ultima funzione ha finito per snaturare la legge italiana: se in Europa ora ci sono 25 nazioni, se il commercio interno è libero e la produzione è sovrannazionale, i controlli saranno per forza più deboli e la documentazione sempre più intricata, a meno di non riformare l’Europa prima ancora di averla creata. 

La seconda parte del libro analizza le industrie italiane, in realtà un oligopolio, tutte aziende che chi legge Rid o Panorama Difesa o Jane’s conosce benissimo da anni. La documentazione è aggiornata e i dati sono attendibili. Buona anche l’analisi delle associazioni della società civile che cercano da anni di limitare il traffico d’armi almeno verso i clienti impresentabili. Ottimi infine l’appendice legislativa (col testo completo della  legge 185 del 1990), l’apparato critico (cioè le note), la bibliografia e la sitografia, ovvero l’analisi delle fonti reperibili nell’internet. 

Marco Pasquali