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Libri




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Enrico Camanni
IL FUOCO e IL GELO
La Grande Guerra sulle montagne
Laterza, Bari, 2014
XXVI, 211 p., ill.
Prezzo: euro 16,00
EAN:9788858112373

Disponibile anche in e-Book

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Guerra e Vertigine

La prima guerra mondiale, il cui centenario sta promuovendo una serie di studi storici, assunse sul fronte italiano caratteristiche uniche: il confine nemico che l’esercito italiano aggrediva era coronato da 640 km di montagne alte anche oltre i 2000 metri, con pochi valichi utili alla penetrazione di grandi unità. Ovvio che difendersi dall’alto era più facile che attaccare in salita, per cui la conquista delle quote, sport estremo in tempo di pace, divenne l’attività principale sia dei nostri Alpini che dei loro omologhi austro-ungarici e tedeschi, mentre il resto della fanteria doveva tenere posizioni impossibili o attaccare un nemico ben abbarbicato nella roccia, fosse quella del Pasubio che la pietraia carsica dell’altopiano di Asiago o del Monte San Michele, delle Dolomiti o ancora le creste arrotondate delle Alpi Giulie che si affacciano sulla valle dell’Isonzo. Oggi, se escludiamo l’Afghanistan e la frontiera del Kashmir, le guerre non si decidono più in alta montagna. Già a Caporetto (1917) lo sfondamento avvenne a valle, trascurando cime che sarebbero rimaste comunque isolate dall’avanzata austroungarica. Ma oggi è anche difficile spiegare a un giovane la visione mistica dell’arco alpino come sacro confine naturale della nazione italiana (in realtà dell’Italia fisica) che guidò l’offensiva di Cadorna, che di montagna poco capiva. “Accecati dal miraggio di Trento e Trieste – scrisse una guida alpina austriaca – gli italiani hanno trascurato il valico del Tarvisio” (che da Udine porta a Vienna, ndr.). Ma né Trento né Trieste furono liberate, almeno fino a guerra finita. Questo perché gli austriaci avevano il vantaggio delle quote, occupate per tempo. Persino la propaganda mostra le differenze: i nostri soldati si arrampicano o assaltano sempre in salita, mentre invece gli ufficiali e i miliziani austriaci scrutano olimpicamente la stupenda vallata in attesa dell’attacco italiano. .In più, a differenza degli austriaci, molti soldati italiani non avevano alcuna pratica della guerra in montagna, né capivano l’utilità di mantenere una quota o una cresta invece di un’altra, laddove Schutzen e Kaiserjaeger difendevano i loro valichi da secoli. Guerra sublime e rarefatta, perché quei 640 km di fronte alpino dallo Stelvio al Carso erano e sono un Teatro della Natura, meta di escursionisti ed alpinisti, ma cimitero a cielo aperto per chi tra vette e valli, forre, ghiacciai, crepacci e altipiani ci ha vissuto e combattuto per tre anni. Nessuno in tempo di pace vive in quota per dodici mesi all’anno e gli eserciti contrapposti hanno perso 180.000 uomini, molti dei quali mai caduti in battaglia, ma vittime di slavine, frane, congelamenti e polmonite. Quella guerra, per convenzione chiamata “guerra bianca”, costituiva forse un fronte secondario rispetto alle trincee del fronte occidentale, ma ha tenuto impegnati migliaia di soldati. Mantenere e rifornire in quota un pugno di alpinisti guerrieri richiedeva un lavoro immenso, dieci per uno, mentre le condizioni di vita in alta montagna erano durissime. Tra l’altro, non c’erano ancora tessuti sintetici né indumenti tecnici e una piccozza pesava tre volte una di adesso. Per quanto smontabili, i cannoni da montagna pesavano comunque e così le munizioni. Oggi ci sono gli elicotteri, all’epoca al massimo i muli e le teleferiche, ma di regola i soldati dovevano portarsi a spalla carichi di 30-35 kg., più tutto il resto. La montagna stessa cambiò in modo radicale il suo aspetto fisico: piena di trincee e camminamenti scavati nella roccia, di gallerie, di reticolati e baracche, disboscata dall’artiglieria o dalle quotidiane esigenze di migliaia di uomini. Oggi l’escursionista che vuol visitare le zone della guerra bianca trova le tracce di un’epoca, ma solo quelle più visibili: legno e ferro sono stati depredati dai recuperanti, le montagne son tornate verdi e molte posizioni in quota non sono più accessibili: lo erano infatti solo grazie a scale, ferrate e camminamenti poi franati. E soprattutto, non riuscirà mai ad entrare nell’animo dei soldati che su quelle vette e su quei ghiacciai ci hanno vissuto per mesi. E qui vale appunto la pena di leggersi questo libro, giunto alla quarta edizione in un anno, scritto da un alpinista e scrittore, il quale ha raccolto le testimonianze dei combattenti: diari, memorie, lettere, fotografie, integrandole con osservazioni tecniche alpinistiche basate sulla lunga esperienza personale. Quanto ne viene fuori è un quadro diverso della guerra mondiale: non vi sono battaglie campali tra grandi unità, ma una sorta di situazione surreale, fortemente estetica: i soldati che si fronteggiavano da una vetta alpina all’altra, di fronte a panorami a strapiombo, si odiavano meno di quanto non si sentissero vicini per le comuni condizioni estreme di vita. Guerra di pattuglie, quindi meno industriale della macelleria di massa combattuta a valle, ma non meno pericolosa. Eppure, in quella situazione di isolamento, chi combatte in quota o addirittura vive dentro un ghiacciaio si sente letteralmente al di sopra degli altri, godendo di una situazione unica. e vincendo la battaglia quotidiana per vedere l’alba del giorno dopo. Salire oggi sulle cime sopra Cortina e sapere che cent’anni fa si è combattuta una guerra fra Titani può dare solo un’immagine di quello che hanno provato i nostri nonni. Niente di strano che le memorie dei nostri alpini e fanti siano tanto simili a quelli dei loro omologhi austriaci e tedeschi: la vita estrema in montagna affratella più che divide, anche se ci si spara addosso a 3500 metri di quota.

Marco Pasquali